DANIELE COVARINO
Testo a cura di Alessandro Piergallini
L’associazione Tangram mette a disposizione degli artisti coinvolti nel progetto uno spazio quadrato, 180 centimetri per lato, entro cui disseminare la propria visione. Lo spazio si chiama Hortus Artis ed è un luogo fisico e simbolico allo stesso tempo, l’orto dell’arte. Non è delimitato da una preziosa cornice che separa l’opera dal resto del mondo, né può essere considerato un semplice e asettico piedistallo su cui appoggiare delle sculture.
Nel riferimento all’orto, alla coltivazione, che nella storia dell’umanità segna la fine del nomadismo e l’inizio delle civiltà stanziali, leggiamo un richiamo esplicito a un’idea ben precisa della cultura, che si lega alla radice etimologica della parola latina “colere”, coltivare appunto. Questa accezione mette in rilievo la capacità dell’uomo di intervenire sull’ambiente esterno assecondando le proprie esigenze, e si pone in contrapposizione dialettica con quell’idea di cultura alta e erudita, appannaggio di pochi eletti, che pure ha trovato tanto spazio nella storia del pensiero occidentale.
Se consideriamo l’etimologia del termine arte, ci troviamo di fronte alla medesima suggestione. La parola latina ars è infatti la trasposizione della téchne greca, e sottintende un forte legame con la materia e con la capacità umana di trasformarla. Questa discendenza linguistica è andata però in contro alla stessa rimozione concettuale toccata in sorte alla radice materiale della cultura. L’attività dell’artigianato è stata per lungo tempo relegata alla sfera del sostentamento, in netta contrapposizione a un’arte simbolica superiore, destinata alla contemplazione dei pochi privilegiati in grado di comprenderla.
La frattura tra il piano alto-ideale e quello materiale dell’esistenza genera ancora oggi gravi e profondi fenomeni di esclusione, cui sarebbe necessario porre rimedio. La maggior parte delle persone, ad esempio, resta distante dalla produzione artistica contemporanea trovandola incomprensibile, talvolta con la complicità di critici e curatori che, ammantati della propria autorevolezza, preferiscono parlare a un pubblico esclusivo, fatto di collezionisti e addetti ai lavori.
Seguendo questa strada l’arte è condannata a restare in posizione di arrocco, nella sua torre d’avorio, e i fruitori a non potersi dotare di strumenti estetici con cui interpretare e approfondire i molteplici aspetti della propria esistenza materiale.
Fortunatamente però, esiste da sempre un modo diverso di approcciarsi alla questione e, anche nella storia del Novecento, alcuni pionieri hanno lavorato a un progressivo allontanamento dall’idea di opera d’arte come rappresentazione cristallizzata e autorevole del bello, e adottato soluzioni estetiche che mirano invece al massimo coinvolgimento sensoriale del pubblico.
In Pane, di Daniele Covarino, ritroviamo proprio questo spirito. Lo spettatore riconosce immediatamente le forme così familiari dei filoncini disposti all’interno dell’hortus. Insieme alla vista si attiva subito il tatto, l’esigenza di esplorare con i polpastrelli la grana fragrante di quelle superfici. Toccandole si percepisce l’argilla fredda, e ci si rende conto della finzione, di assistere a una rappresentazione simbolica.
Se finisse tutto qua saremmo ancora una volta di fronte all’arte in scena, ironica tautologia che prende le distanze dalla realtà. Ma ecco che il video, medium del tempo reale per definizione, ci mostra lo scultore muoversi con gli stessi gesti del fornaio intento nel suo lavoro, ci coinvolge nella relazione tra l’oggetto e le sue rappresentazioni, in una sorta di ginnastica mentale che riporta l’opera sullo stesso piano quotidiano dell’esistenza.
L’artista è tanto scultore quanto fornaio, vive ogni giorno le sorprendenti analogie che legano queste attività, le attese della cottura, l’impegno manuale, le alchimie tramandate dall’antichità attraverso cui l’informe diventa forma. Come il fornaio impasta la farina, solidi chicchi di grano fatti polvere impalpabile, che ritorna a essere materia solida sotto i palmi delle sue mani, così lo scultore ricava l’oggetto immaginato dall’argilla.
Attraverso il pane, che potremmo definire l’archetipo dell’alimentazione, quest’opera di Daniele concilia dunque le due facce della cultura, trova nella capacità umana di plasmare la realtà il denominatore comune di arte e artigianato, regalandoci la meraviglia e la bellezza del quotidiano, la sua complessa semplicità.
Alessandro Piergallini