GIULIA FILIPPI
“ AZIMO “
Testo a cura di Aurora Roscini
A quasi due anni dal suo avvio, l’avvicendarsi di artisti e curatori nell’ambito del progetto hortus artis è giunto al termine prefissato: un ricco percorso in dodici tappe attraverso le quali è stato possibile registrare la metamorfosi dello spazio espositivo destinato dall’associazione tangram alla varietà delle proposte artistiche; assistere al mutamento di poetiche e di intenzioni, come di fronte allo scorrere di un unico, ma cangiante, ciclo naturale; verificare la tenuta di un processo di gemmazione creativa incardinato, da un lato, sull’assoluta libertà espressiva dei singoli partecipanti, dall’altro, sulla necessarietà del “passaggio di consegne”, della sequenzialità operativa, della nascita di formule sempre diverse svincolate dalle precedenti eppure proprio da queste chiamate ad essere.
particolarmente incisiva in tal senso è la presentazione dell’opera azimo di giulia filippi che, pur collocandosi a chiusura del progetto, rifugge i rischi di un ripiegamento estetico autoreferenziale e tenta piuttosto di porre l’accento sull’idea stessa della trasformazione, del divenire ineluttabile a cui ogni cosa è sottoposta, della vibratilità del reale.
il delicato calco in carta di riso rompe concettualmente le barriere dell’hortus conclusus a cui la galleria fa eco, ne viola la prospettiva à l’intérieur e spinge il fruitore a interrogarsi sul mondo esterno e sulla propria presenza/assenza in esso. seccatasi e plasmata su di un modellino di partenza, ovvero sulla ricostruzione polimaterica di un immaginario paesaggio appenninico in mutamento, la carta ne impressiona le fattezze e la fragilità, ne diventa impronta e memoria, immagine di immagine che solo in questo gioco di specchi trova la propria essenza e veridicità. la stampo è forma nuova, irriconoscibile, traccia generatasi autonomamente sul prototipo e volutamente sottratta ad ogni ulteriore intervento di manipolazione: il tempo e la materia portano di per sé cambiamenti imprevedibili e linfatici che sfuggono alla possibilità di controllo e di orientamento.
il materiale prescelto, caro alla ricerca linguistica della giovane artista, ricorre sublimato nel titolo dell’installazione: l’azzimo non è altro che l’impasto di farina e acqua di cui è composto il lavoro, di natura grezza, semplice e bastevole. la velocità della preparazione, così connotativa dell’elemento nella sua lettura iconografica più tradizionale, risulta in fin dei conti distonica rispetto alla complessità dell’operazione artistica in oggetto ma finisce per porre ulteriore accento sulla rapidità dei cambiamenti innati o indotti che caratterizzano i luoghi di appartenenza e di esistenza.
la realizzazione di una composizione completamente edibile, in perfetta aderenza al leitmotiv prescelto per l’“orto dell’arte”, schiude ulteriori riflessioni. non soltanto, a un livello più immediato di lettura, allude alla doverosa sostenibilità di ogni azione di relazionamento al territorio, basandone i presupposti sul riconoscimento e quindi sull’accettazione del principio transeunte che lo governa. ad un livello più approfondito, l’opera sostanzia il concetto di possibile fagocitazione del mondo esterno compiuta da parte dell’uomo: come cibo sacrale, la realtà, o meglio l’immagine che di essa si ha, dovrebbe essere liberata dallo status di mero “scenario”, trasformata ma non distrutta, vissuta con senso d’indispensabile appartenenza interiore; in definitiva, essere introiettata non tanto come stimolo visivo ed esperienziale quanto come fonte, non materiale e ciò nonostante basilare, di nutrimento. Aurora Roscini Vitali